L’intervista al Professor Ercole Vellone




L’intervista al Professor Ercole Vellone, coordinatore del Dottorato in Scienze Infermieristiche e Sanità Pubblica presso l’Università degli studi di Roma “Tor Vergata”, nasce dall’esigenza di offrire ai dottorandi e ai professionisti del settore un riferimento prezioso per comprendere l’importanza della ricerca infermieristica in Italia. Il Professor Vellone, riconosciuto a livello internazionale per i suoi studi sul self-care, condivide la sua esperienza personale e professionale, toccando temi cruciali come le sfide accademiche e la necessità di un maggiore riconoscimento del ruolo del ricercatore infermieristico. Attraverso questa intervista, si vuole evidenziare come la ricerca non sia solo uno strumento di crescita professionale, ma un vero e proprio servizio alla collettività. L’obiettivo è ispirare una nuova generazione di infermieri a investire nella formazione dottorale, contribuendo al miglioramento della qualità delle cure e della salute pubblica.


Lei ha conseguito il dottorato di ricerca nel 2014 con Prof. Barbara Riegel come adviser. Come ha affrontato il suo percorso dottorale?

 Avevo conosciuto la Prof. Riegel prima del Dottorato in quanto collaboravamo già su una linea di ricerca sul self-care nello scompenso cardiaco. Il percorso fatto con la Riegel è stato estremamente interessante ed arricchente, perché mi sono trovato a lavorare con uno dei maggiori esperti internazionali nella ricerca infermieristica in ambito di infermieristica cardiovascolare. Lei mi ha aperto un mondo: ho avuto modo di entrare in contatto con altri ricercatori internazionali e, via via negli anni, è stato un crescendo continuo di ricerca ad alti livelli. Non penso che senza il supporto e la guida della Prof. Riegel sarei mai riuscito a diventare Fellow dell’American Academy of Nursing!

 

Le manca la clinica? Ha mai avuto ripensamenti in merito a questa scelta?

La clinica mi manca! Soprattutto mi manca la possibilità di poter implementare “immediatamente” i risultati della nostra ricerca sui pazienti. Se tornassi indietro rifarei la stessa cosa con la consapevolezza che la ricerca è un “servizio” verso i pazienti, per migliorare le loro condizioni di vita, e verso i colleghi, che grazie alla ricerca possono attuare interventi che hanno maggiore probabilità di arrecare un beneficio verso gli assistiti.

Perché lei si è iscritto al dottorato e perché un infermiere dovrebbe iscriversi al corso di dottorato?

La mia scelta di iscrivermi al dottorato è avvenuta dopo che io ero già ricercatore (questa era un’anomalia solo italiana prima della Riforma Gelmini del 2010) ma, a prescindere dalla necessità di “sanare” questa anomalia, mi sarei comunque iscritto al Dottorato in quanto erano già molti anni che avevo interesse per la ricerca infermieristica. Perché un infermiere dovrebbe iscriversi al Dottorato? Perché, iscrivendosi ad un Dottorato, l’infermiere vuole contribuire alla salute ed al benessere del paziente, della sua famiglia e della collettività con lo sviluppo di nuova conoscenza. E questa conoscenza (infermieristica!) può essere sviluppata SOLO dall’infermiere, perché SOLO l’infermiere conosce cosa sia la disciplina e la pratica infermieristica. Se l’infermiere non fa ricerca, nessuno può farla al posto suo ed i pazienti, le loro famiglie e la collettività saranno prive di queste conoscenze che potrebbero migliorare le loro vite.

 Quali sono, secondo lei, le maggiori sfide che un dottorando deve affrontare durante il percorso dottorale e quali invece al termine dello stesso?

Le sfide del dottorando e del dottorato sono molte e si possono superare solo con un’infinita passione per la ricerca. Durante il dottorato, il dottorando ha come sfide principali quelle di capire veramente cosa è necessario studiare. Capita spesso che anche i progetti che vengono sottomessi in fase di concorso non siano dei veri e propri progetti di ricerca ma un voler raccogliere dei dati per soddisfare una propria curiosità o perché si vuole imitare la ricerca condotta in altri Paesi più avanti di noi nella ricerca infermieristica. La sfida iniziale è capire con precisione il “lack of knowledge” su cui basare il proprio dottorato. Questa è l’attività più difficile del dottorando che richiede studio approfondito della letteratura esistente. Poi c’è, ovviamente, la sfida di riuscire a pubblicare i propri lavori che potrebbe essere particolarmente frustrante: ci possono essere rejection senza nemmeno il referaggio dell’articolo, oppure una rejection dopo il referaggio e questi rifiuti possono compromettere molto il benessere psicologico del Dottorando: si rischia infatti di avere una diminuzione nell’autostima, una forte delusione sulle proprie capacità di fare ricerca e potrebbe anche avvenire che dopo queste rejection i dottorandi possano lasciare il percorso. Ma queste esperienze sono anche la prova per capire se si è veramente portati per questo lavoro. Nella ricerca (e nella produzione scientifica) accade spessissimo che i propri progetti di ricerca o i propri articoli vengano rifiutati ma da questi rifiuti si apprende molto! Se il revisore del progetto o dell’articolo ha fatto un buon lavoro, si può imparare veramente tanto! Nel post dottorato le sfide diventano anche più importanti. Chi inizia un percorso di post dottorato, molto probabilmente, ha intenzione di iniziare la carriera accademica e quindi le sfide sono quelle di lavorare in progetti di ricerca, pubblicare molto, sviluppare una propria leadership nella ricerca e prepararsi il curriculum ai fini dell’abilitazione scientifica nazionale. Poi, nei contesti universitari non c’è solo la ricerca, c’è anche l’attività didattica, il supporto agli studenti, qualche compito di tipo amministrativo e le cose si possono complicare. E’ c’è anche la propria vita privata e familiare! A volte non è semplice capire come mantenere un equilibrio tra vita lavorativa e vita personale e familiare. Questo equilibrio si apprende solo con l’esperienza.

 Se oggi si guardasse indietro, chi vorrebbe ringraziare e chi invece no? Chi l’ha aiutato e chi l’ha, anche indirettamente, ostacolata nel raggiungimento del titolo?

Devo dire subito che non ci sono state persone che mi hanno ostacolato! Le persone che ho incontrato nel mondo della ricerca o dell’Accademia mi hanno sempre dato molto e quindi devo ringraziare tutti. Ci tendo a citare i nomi di queste persone. La prima persona che mi ha introdotto nel mondo della ricerca è stata la Prof.ssa Julita Sansoni: con lei ho avuto la “vocazione” di diventare ricercatore. La seconda persona è la Prof.ssa Marlene Z. Cohen, con cui ho pubblicato il primo articolo internazionale: mi ha dato i primi rudimenti sulla scrittura scientifica e mi ha introdotto alla ricerca fenomenologica. La terza persona è la Prof.ssa Rosaria Alvaro: è stato il mio primo mentore in università e mi ha permesso di apprendere come funziona il mondo universitario italiano. La quarta persona è la Prof.ssa Barbara Riegel che mi ha introdotto alla ricerca internazionale. Poi mi sento di dover ringraziare tutti i vari dottorandi, diventati poi assegnisti e docenti universitari con cui ho lavorato bene e con entusiasmo!

Sappiamo che la ricerca infermieristica in Italia è in forte sviluppo. Si parla spesso di una produzione scientifica fuori controllo, con migliaia di articoli che vengono pubblicati ogni giorno.

È vero, la produzione scientifica sta avendo un forte sviluppo ed a danno della qualità. L’editoria scientifica sta infatti diventando un business e a volte i ricercatori, spinti più dalla frenesia di pubblicare, non valutano con attenzione la qualità delle riviste. Devo dire che in Italia la situazione è abbastanza sotto controllo in quanto conosciamo bene che esistono i cosiddetti “Predatory journals” e ne rimaniamo alla larga. Ma vedo che, soprattutto nei paesi in via di sviluppo, dove forse i criteri per diventare accademici sono meno stringenti di quelli presenti in altri paesi, pubblicano anche in queste riviste. La produzione di nuove riviste e l’aumento degli articoli pubblicati richiede molto sforzo da parte degli Editor che trovano sempre più difficoltà nel referaggio dei lavori. Come editor associato dell’European Journal of Cardiovascular Nursing mi capita spesso di dover chiedere di referare un articolo e decine e decine di referee con la speranza di trovare almeno i tre necessari. Referare gli articoli richiede tempo da parte dei referee e con l’aumento del numero degli articoli prodotti a livello mondiale anche il lavoro dei referee è diventato imponente. Un lavoro che è del tutto gratuito!

Quali sono, secondo lei, a lungo andare i vantaggi e gli svantaggi di questo fenomeno?

I vantaggi sono che si ampliano le possibilità di riuscire a pubblicare i propri lavori e di avere, in alcuni casi, riviste molto specializzate. Ma sono molti di più gli svantaggi, dati dalla diffusione di una “scienza spazzatura” che non serve a nessuno.

L’ambizione di ogni ricercatore, indipendentemente dal suo campo di studi, è quella di lasciare un segno significativo nella comunità scientifica.. Questo impatto viene misurato attraverso un indice, l’h-index. Ritiene che la valutazione dell’impatto della ricerca sia un aspetto davvero importante?

L’H-index è da valutare con accuratezza. Un alto H-index significa solo che un certo numero di lavori pubblicati da un ricercatore sono stati citati da altri ricercatori nella bibliografia dei propri articoli (ad esempio un H-index di 10 significa che almeno 10 lavori sono stati citati almeno 10 volte ognuno). L’H-index potrebbe essere definito più un indice di impatto delle propri articoli pubblicati e NON l’impatto della ricerca nel mondo reale. Sarebbe molto interessante e importante andare a valutare se i propri lavori siano stati applicati nella pratica clinica ma rimane abbastanza ardua questo tipo di attività.

Quali aspetti del ruolo dell’infermiere ricercatore in Italia necessitano di un potenziamento significativo?

Sarebbero da potenziale i finanziamenti assegnati alla ricerca infermieristica, ancora molto scarsi. Poi sarebbe necessario nelle Aziende sanitarie e nelle varie realtà lavorative, un riconoscimento anche contrattuale dell’infermiere che ha conseguito un dottorato di ricerca. Questo infermiere è una risorsa per l’Azienda, potrebbe essere impiegato nello sviluppo di percorsi di qualità assistenziale oppure di pratica clinica avanzata, a tutto vantaggio per gli assistiti. Purtroppo molte Aziende questa cosa ancora non la capiscono e molti dottori di ricerca continuano a non essere valorizzati.

State rivoluzionando la ricerca infermieristica in Italia sia dal punto di vista della qualità che della quantità. A lungo termine quali risultati pensa possa portare questa scelta?

 Che finalmente la politica e le altre professioni possano comprendere il valore della ricerca infermieristica che non è un’attività intellettuale per permettere agli infermieri di entrare in accademia, ma è un’attività di servizio al paziente, alla sua famiglia ed alla collettività. La ricerca, in tutti gli ambiti, è sviluppo. Nell’ambito dell’infermieristica la ricerca mira al miglioramento della vita degli assistiti e, quindi, come dicevo prima, se gli infermieri non fanno ricerca il danno viene prodotto sui cittadini e non sulla carriera degli accademici.

Il mondo accademico è sempre visto da molti di noi come una strada in salita, in alcune parti d’Italia particolarmente ostica. Quali sono i suoi consigli per un dottorando che desidera intraprendere una carriera nella ricerca?

E’ vero, la carriera accademica è difficile (io ho impiegato 10 anni per stabilizzare la mia posizione come professore associato in università). I consigli che mi sento di dare sono i seguenti:

  1. iniziare questo percorso solo se piace veramente;
  2. non indietreggiare davanti alle sconfitte;
  3. capire che grazie alla propria ricerca, a volte non subito, ne può derivare il pazienti, le loro famiglie e la comunità;
  4. mettersi sotto la guida di un buon mentore.

Fare ricerca non significa sempre fare lo scienziato, ma una piccola parte riguarda anche la politica (ruoli accademici, impegni sociali, etc). Lei si sente più scienziato o politico?

Io mi sento più “scienziato” e devo comunque dire che l’accesso alla carriera accademica avviene sulla base della propria ricerca. Non si può diventare ricercatore in accademia pubblicando poco oppure non portando avanti progetti di ricerca. Poi bisogna essere anche “politico” perché è il politico che prende le decisioni.

Dieci anni fa il dottorato, oggi coordinatore della scuola, dove si vede tra cinque anni?

Molto probabilmente continuerò ad occuparmi di formazione dottorale. Spero di continuare la mia attività di ricerca e soprattutto fare sempre più ricerca utile.

Pregi e difetti del professor Ercole Vellone?

Non saprei, chiedetelo a chi lavora con me …

Lei è uno dei massimi esperti sul self-care al livello internazionale. Quanto pensa che ad oggi le sue ricerche abbiano influenzato la pratica clinica degli infermieri?

Penso spesso alla “fine” che hanno fatto i miei lavori pubblicati, ovvero se qualche infermiere nel mondo abbia potuto utilizzare i risultati della mia ricerca nella pratica assistenziale. Conosco abbastanza bene l’influenza dei miei lavori nel modo della ricerca (molto banalmente è sufficiente andare su Scopus o Web of Science e vedere quanto spesso i propri lavori sono stati citati, molto di meno l’influenza dei miei lavori nella pratica. Negli ultimi anni sono stato contattato diverse volte da infermieri clinici che mi hanno chiesto di poter utilizzare gli strumenti per valutare il self-care e probabilmente, pian pianino, il self-care sta entrando nella routine assistenziale. La prova è che sempre più se ne parla…  

Come crede si evolverà il campo della ricerca sul self-care nei prossimi anni, e in particolare come l’intelligenza artificiale, alla luce dei nuovi progressi informatici e tecnologici, influenzerà il self-care?

Il futuro è molto interessante e affascinante. Probabilmente, con l’intelligenza artificiale, si potrà avere una assessment delle capacità del self-care in poco tempo e, soprattutto, si potranno avere delle indicazioni per tailorizzare al massimo gli interventi. In pratica, sulla scorta delle evidenze disponibili in letteratura sui predittori del self-care ed altri interventi che hanno “funzionato”, l’intelligenza artificiale potrebbe dare delle indicazioni molto precise sul tipo di intervento che potrebbe ricevere il sig. Mario Rossi. Ad esempio, l’intelligenza artificiale potrebbe consigliare al clinico che il sig. Mario Rossi, al fine di migliorare il self-care, deve ricevere prima un intervento per ridurre la depressione (perché la depressione è un predittore negativo di self-care) e poi ci potrebbe consigliare di individuare una persona di supporto per il Sig. Mario Rossi perché un caregiver potenzia le capacità di self-care. Ovviamente non è detto che funzioni…ma, anche qui, sarà compito della ricerca scoprirlo.

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