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Lavoro da un paio di anni in un reparto di riabilitazione cardiologica e pneumologica di alta specializzazione, dove i parametri vitali dei pazienti più critici vengono spesso monitorati 24 ore su 24. E si sa, con i monitor non ci sono solo onde e parametri, ma anche suoni e allarmi di tutti i tipi. Tanti suoni, uno più irritante dell’altro, di diverso volume, che a volte ti segnalano cose importanti e a volte (nella maggior parte dei casi) artefatti. Una legge non scritta afferma che il volume del allarme è direttamente proporzionale all’importanza (ipotetica) dell’episodio che questo sta segnalando. Aggiungendo un pizzico di fantasia, prendendo comunque spunto dalle leggi di Murphy, potremmo elaborare due corollari: “più l’allarme è frequente, meno sono le probabilità che l’episodio sia realmente rilevante” e “più il volume di uno specifico allarme è alto, più alte sono le probabilità che suoni proprio quell’allarme”. In un reparto simile al mio, a questi suoni “vitali”, si aggiungono le diverse pompe di infusione, munite di un suono fine, ma allo stesso tempo particolarmente penetrante a chi gli sta vicino, cioè i pazienti. E poi ci sono i suoni di routine e i suoni di passaggio. Operatori sanitari che tritano, sbattono, aprono, chiudono, spostano, fanno cadere, strappano, rompono, chiacchierano e, perché no, a volte urlano.
A subire la performance di questa orchestra di strumenti scordati e musicisti aritmici, almeno in campo musicale, c’è il paziente. I rumori che si sviluppano nei diversi reparti non possono essere tutti attribuibili all’innovazione tecnologica degli strumenti che usiamo. Infatti, il disturbo legato al rumore è antico quanto l’essere umano. Per esempio nel mito dell’alluvione babilonese, Enlil (Signore della Tempesta), infastidito del rumore creato dal genere umano, che gli ha impedito il sonno, decide di sterminare con un alluvione l’intera razza umana. Poco più di un secolo fa invece fu proprio la nostra collega Florence Nightingale a definire il rumore (noise, dal latino nausea) non necessario come “la più crudele assenza di cure che può essere inflitta sia ai malati che ai sani”. Le intuizioni di Florence, che non è passata alla storia solo per i lavori sull’infettivologia, successivamente si sono rilevate corrette. Infatti, il rumore non è solo disturbo della pace dei pazienti oppure problemi legati all’alterazione dell’udito, ma, secondo numerosi studi, è associato anche diversi disturbi e patologie: per esempio è stato dimostrato che rallenta la guarigione delle ferite1, favorisce l’innalzamento della pressione arteriosa2,3, altera la funzione cardiaca4, provoca disturbi psichici come la depressione minore o disturbo d’ansia5,6 e favorisce l’insonnia7,8. In più, l’errore aumenta il livello di distrazione degli operatori sanitari, che, lavorando per priorità, devono interrompere ciò che fanno e dedicarsi all’allarme: anche qui sono numerosi gli studi che associano ai rumori un’alta probabilità di errore9. La Joint Commission on Accreditation of Healthcare Organizations sostiene che il rumore sia un potenziale fattore di rischio correlato a errori medici e infermieristici, affermando che “i livelli sonori ambientali non dovrebbero superare uno specifico livello da impedirebbe agli operatori di comprendersi tra loro”. Un articolo nel Journal of the Association of Operating Room Nurses (Novembre 2003) riportò un episodio, dove un anestesista, in una sala operatoria dove la musica era molto forte, fraintese le indicazioni del chirurgo riguardo i livelli di eparina da infondere. Di fronte a queste evidenze, è la stessa Organizzazione Mondiale della Sanità a stabilire che il livello sonoro delle stanze da letto dovrebbe assestarsi intorno ai 40 dB (massimo 35 dB la notte, che equivale ad un forte sussurro) per una buona qualità del sonno nei soggetti sani. Questo, nella buona parte dei casi, non avviene in reparti che presentano un’alta intensità di cure, con effetti dannosi non solo per gli operatori, ma sopratutto per i pazienti, che in quella fase del ricovero hanno elevate probabilità di sviluppare disturbi psicotici. E nello specifico, per quanto riguarda i pazienti, mi riferisco a quelli critici, che non possono interagire adeguatamente, manifestare il loro disappunto, alzarsi dal letto, staccare la presa e, nella peggiore dei casi, lanciare il monitor dalla finestra (come probabilmente vorresti fare tu ora con il tuo cellulare o computer). Sono loro che dovrebbero essere tutelati maggiormente dagli operatori sanitari, che vivono il reparto per un limitato periodo di tempo della giornata. A tal proposito, qualche settimana fa, su consiglio di una collega, ho letto tutto d’un fiato il libro “Cosa sognano i pesci rossi?” dell’anestesista e rianimatore Marco Venturino, che affronta il dramma di un paziente morente “parcheggiato in terapia intensiva”, rinchiuso nel metaforico acquario del suo letto. Un acquario, sfortunatamente per lui, privo di quella barriera acustica che garantiva ai supereroi con il super udito di riposare: l’acqua. Con una grande capacità narrativa, l’autore tocca in maniera profonda la tragedia di un paziente immobilizzato dal destino segnato: non può parlare, non può gesticolare, non può indicare. Il Sig. Tunensi, “il Numero 7”, il Pesce Rosso, può solo ascoltare, ascoltare e ascoltare. Non ha scelta. A tratti non riesce più nemmeno a seguire il flusso dei propri pensieri, costantemente disturbato dal monotono rumore dei monitor e di tutto ciò che lo circonda. Spesso gli operatori sanitari, sarà per la routine o per lo spirito di adattamento, si abituano a questi rumori e perdono la sensibilità necessaria per empatizzare con il paziente e cancellare in qualche modo il disturbo. Urlare, quando il paziente per esempio è affetto da ipoacusia, crea un forte rumore, con conseguente disagio, e spesso induce a fraintendimenti con gli altri pazienti. Capita a volte, quando si giunge a casa, a parità del carico di lavoro, che si senta una maggiore stanchezza nelle giornate più rumorose rispetto a quelle più silenziose. Si tratta di una stanchezza mentale, che si manifesta nella maggior parte dei casi con cefalea. Fare più attenzione ai rumori, significa garantire cure migliori, migliorando significativamente gli outcome su numerosi fronti. Nel campo turistico in alcuni paesi, come la Finlandia, il silenzio è particolarmente sponsorizzato e vende piuttosto bene. Una settimana di meditazione, immersi nella natura nordica, costa centinaia di euro. Con la stessa logica, mossi anche da evidenze scientifiche e semplice buon senso, come infermieri, operatori sempre presenti nelle strutture ospedaliere, dobbiamo fare il tentativo di riappropriarci del silenzio nei reparti, percepito spesso come una qualità fragile e delicata, come un vaso di porcellana, e, laddove necessario, essere vigilatori e garanti della quiete nelle stanze.
Adesso che probabilmente sei arrivato alla fine di questo articolo, (spero) ascoltando ancora l’audio che ti ho proposto, tralasciando qualche comprensibile difficoltà di concentrazione, quanto tempo credi resisteresti, immobile nel letto d’ospedale, se questo suono monotono, alto e irritante scandisse ogni minuto della tua vita?
Hamilton Dollaku lavora come infermiere presso l’IRCCS Don Carlo Gnocchi di Firenze nel reparto di riabilitazione cardiologica e respiratoria ad alta specializzazione.
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