La Pandemia, che da un anno imperversa sul nostro mondo, prosegue nel suo corso. Mentre numeri asettici e freddi scorrono quotidianamente davanti ai nostri occhi a ricordarci contagi, vittime e guarigioni, noi infermieri cerchiamo di capire cosa siamo e cosa saremo. Oramai le immagini patinate e da copertina di professionisti immolati nella lotta al virus, applausi dai balconi, onte di persone che ci ringraziavano come fossimo partigiani 2.0, sembrano appartenere al passato, un passato che nella percezione del nostro corpo e della nostra mente sembra ben più lungo di un anno, come se quello che ci si siamo trovati a combattere e ostacolare avesse lenito le sensazioni quotidiane e costretto tutti noi a reinventare il concetto stesso di tempo. E forse è proprio questa la chiave di volta di tutta la questione: se da un lato c’è la terribile ecatombe di centinaia di migliaia di vite spezzate dal virus, evitando di questionare in merito alle ormai famose “malattie pregresse”, dall’altro vi sono migliaia di professionisti che ogni giorno non si sono risparmiati nel portare assistenza a chi ne aveva bisogno. Tantissimi infermieri, che quotidianamente, all’interno di reparti Covid e non, hanno dovuto ritagliarsi un nuovo spazio, un nuovo metodo, nuove tempistiche per districarsi in tutto quel groviglio di situazioni da teatro dell’assurdo che la Pandemia ha creato. Ma per quanto possa apparire eroico o romantico, nel nostro lavoro non c’è nessun Godot da aspettare. Il nostro lavoro non è un’opera prima, non è il teatro shakespeariano, in cui le grandi tragedie, con il tempo a far loro da setaccio, divengono imprese di eroico altruismo e candidi sentimenti. Non è il nostro lavoro, è vita reale, composta da sofferenza, da mani che ne cingono altre, di arrabbiature, di preoccupazioni, di ansie svanite in una sigaretta o nei corroboranti pensieri del tragitto che porta a casa. È il sentimento di appartenenza ad una categoria che fino ad ora non ha mai ricevuto ciò che meritava, ma che da sempre fa quello che deve fare e, nella stragrande maggioranza dei casi, lo fa nel miglior modo possibile. E proprio ora che siamo stanchi, che, come dicono tanti, “non dovremmo lamentarci perché noi un lavoro lo abbiamo”, proprio ora che il virus pare non arrestarsi, proprio ora che la lotta appare come uno sforzo titanico, abbiamo bisogno di capire dove stiamo andando? Cosa accadrà alla nostra professione? Come tutto ciò si ripercuoterà sul nostro agire? Ovviamente stilare una previsione non è assolutamente nelle mie competenze e forse non è in quelle di nessuno. Per mia naturale avversione verso tutto ciò che non è dimostrabile o smentibile, mi affido a quello che nel concreto appare e si manifesta, e quello che in questo momento si mostra davanti a noi è uno scenario ostico e sconnesso, che andrà analizzato punto per punto per non incorrere in un futuro disastroso per la professione.
Per prima cosa dobbiamo fare i conti con quelle che sono le ripercussioni mentali e psicologiche degli operatori sanitari. I dati fino a questo momento a supporto della ricerca descrivono un quadro in cui l’insorgenza di disturbi mentali, legati al comportamento e al trauma della Pandemia, è in continua ascesa. Gli studi effettuati in Cina e Brasile sui team di infermieri hanno delineato un quadro allarmante, in cui una buona percentuale dei professionisti, che avevano o stavano prestando servizio all’interno di reparti Covid, presentavano i sintomi di quello che viene comunemente chiamato “Disturbo post-traumatico”, sintomi che ovviamente variavano in intensità in base al soggetto e al setting di ricovero in cui prestavano il proprio contributo lavorativo. Non è difficile immaginare che una situazione analoga vi sia anche sul nostro territorio. Siamo umani, prima che infermieri, e come tali soggetti alle leggi universali della nostra psiche, come non sarà altrettanto incomprensibile pensare che abbiamo al momento diverse centinaia di lavoratori a rischio concreto di burnout. Come ben sappiamo si tratta di un disturbo mentale piuttosto grave, che varia in forme e manifestazioni, ma il cui problema di fondo richiede un approccio psicologico da parte di un professionista e un percorso di cura e riabilitazione per la persona che ne è colpita. In seno a quanto detto dobbiamo quindi intervenire. E’ necessario richiedere un supporto concreto e personale. Non siamo tutti uguali, non reagiamo tutti allo stesso modo. Le paure, le ansie e lo stress hanno contorni universali, ma racchiudono un contenuto che varia in base al soggetto che lo compone. Sarà necessario richiedere quindi un aiuto economico, sconti, sovvenzioni, contatti, con strutture che si occupano di supporto psicologico, di diagnosi e cura. Deve essere una strada maestra, per non minare il futuro infermieristico, per non creare falle che rischiano di essere dannose tanto per il sanitario che presta servizio quanto per il paziente che richiede assistenza.
In tutto questo vi è un altro punto critico della situazione: la gestione politica dell’emergenza. In questo momento non esiste una linea generale chiara e pratica a carattere nazionale e questo crea un enorme vuoto, che si aggiunge allo smantellamento di un servizio che, anno dopo anno, rischia di trasformarsi da vanto ed eccellenza per un intero paese ad un Gargantua per soldi, risorse e idee. Nell’ultimo anno lo sforzo economico per garantire un servizio idoneo in stato di emergenza ha numeri da capogiro. La spesa media di alcuni reparti adibiti a degenze covid (ma il discorso vale anche per le alte intensità) si è raddoppiata, se non quasi triplicata, rispetto all’anno precedente. Il costo che impone il rifornimento di D.P.I., lo smaltimento di rifiuti, la creazione di percorsi sporco/pulito, l’assistenza a pazienti con un carico assistenziale e lavorativo sempre maggiore, sta diventando insostenibile per una struttura come quella del modello sanità, già minata da anni di tagli e sprechi. È inutile nascondersi. La polvere che in tanti vorrebbero nascondere sotto un tappeto di elogi e slogan, urlati più per voto che per reale appartenenza, rischia di presentarsi nuovamente e con un costo esponenziale, se non si affronta la situazione con piani che prevedano investimenti futuri e una gestione accurata del personale, evitando di basare gli investimenti provenienti dai Recovery sulla logica del “tutto e subito”, che, come abbiamo imparato a nostre spese, non paga mai. Noi infermieri dovremo essere parte integrante di questo cambiamento, in quanto figura centrale del nostro S.S.N. E’ giunto il momento di sentirci tali, con le responsabilità che questo ruolo comporta, formandoci, investendo in cultura e ricerca per sviluppare il concetto stesso del Nursing, modellando la nostra figura sulla base delle nuove esigenze.
Per quanto concerne invece la politica territoriale, il Covid-19 ha messo a nudo anni di sprechi e di personale sottopagato e sottostimato, con un numero sproporzionato di pazienti per infermiere. Non è un caso se, soprattutto nella prima e nell’inizio della seconda ondata, questo tipo di realtà sia stata tra le più colpite. La logica del profitto, come riportato in precedenza, non paga mai, soprattutto in termine di “Bene Salute”. Per non incorrere nuovamente in questo tipo di scenario sarà necessario fornire una protezione reale e concreta per tutti quei colleghi che operano nel servizio territoriale, nel privato e in tutta la filiera che rappresenta il percorso della persona al di fuori della degenza ospedaliera. Si deve riuscire a creare nuove fondamentali basi, trasformare un punto di criticità in un punto di forza. Gli studi effettuati in numerosi paesi ormai hanno ben dimostrato come un “territorio che funziona”, diminuisce la possibilità di un nuovo ricovero, alleggerisce il carico sui pronti soccorsi, aumenta la qualità della vita del malato e la percezione che le persone hanno del ruolo infermieristico nella comunità. La denominazione di “ausiliari” è stata tolta da anni e proprio per questo è giunto il momento in cui porre fine al bias mentale per cui ancora ci sentiamo e ci comportiamo come tali, pretendere il ruolo che ci spetta su ogni livello e mettere in pratica la nostra formazione ed esperienza. Dobbiamo essere un punto cardine nel cambiamento necessario dei prossimi anni.
Ultimo, ma non per importanza, il lato umano affatto soggettivo del nostro lavoro, perché, come già detto in precedenza, prima che professionisti infermieri, siamo donne, uomini, giovani, meno giovani, con sogni, ambizioni, speranze e sicuramente proprio mentre sto scrivendo questa riflessione, qualcuno dei nostri colleghi è a lavoro oppure sta tornando verso casa, dopo un turno sulle spalle, mentre mentalmente riepiloga tutti i movimenti in cerca di un eventuale falla; forse qualcuno sta medicando, supportando, osservando, misurando; forse addirittura qualcuno sta studiando, per essere un infermiere migliore o per essere infermiere in futuro.
Credo fermamente che siamo tutto questo, perché rappresentiamo bene il collage di emozioni ed azioni che compongono l’atto teatrale chiamato vita e lo facciamo da molti anni. La nostra scena di comparse non è finita con il Covid, non ci siamo ritagliati un ruolo di prima scelta dopo gli applausi e i giubilii, lo abbiamo fatto da molto tempo ed è giusto essere riconosciuti per ciò che rappresentiamo e che ogni giorno portiamo avanti.
Tommaso Mannocci lavora come infermiere presso l’Ospedale di San Giovanni Di Dio di Firenze.